«La cosa bella di Expo è che anche i paesi più poveri possono avere un bel padiglione» mi ha detto il mio fratellino, 11 anni a novembre, all’uscita di Expo. E me lo aveva ripetuto più volte anche dentro, davanti alla sfera gigante in vetro e acciaio che sormonta il padiglione dell’Azeirbaijian o all’imponente montagna di specchi del Kazakistan. Ed è questa forse la miglior sensazione che ci si porta a casa da Expo: lo stupore in paesi inaspettati, in cui si entra con l’aria un po’ snob da occidente colonizzatore e si scopre poi che non hanno niente da invidiare a paesi ben più ricchi.

L’Azeirbaijian è stata una piacevole scoperta in questo senso: il viaggio si snoda tra splendidi steli alti e colorati che si muovono al passaggio, sfere in cui passeggiare tra profumi e clima del paese e schermi interattivi che illustrano i principali prodotti alimentari dell’isola. Un’esperienza più piacevole rispetto a quella offerta da padiglioni di paesi ben più agiati quali il Regno Unito – una stanza sola in cui alcuni schermi illustrano la lavorazione del miele – e la Francia – con un bel giardino coltivato ma con una semplice mostra all’interno. I prezzi non sono inarrivabili come si è detto tante volte, semplicemente dipende da che cosa si sceglie di acquistare e da dove si va a mangiare. Noi abbiamo pranzato con 25 euro e non abbiamo preso da bere perché Expo è disseminata di case dell’acqua.
Per il resto, Expo è una grande narrazione: una presentazione in cui ogni paese cerca di tirare fuori il meglio di sé non solo in fatto di cibo ma anche di tecnologia, perché oggi la tecnologia è tutto. È una fiera della creatività a misura di turismo, e per tanti paesi in via di sviluppo può diventare un modo per riscattare la propria immagine a livello internazionale. L’impressione girando tra i padiglioni è una sola: che l’immagine sia tutto, in primis un trampolino di lancio per una crescita reale e concreta. Mi ha colpito molto ad esempio la scritta esterna sul padiglione dell’Ecuador: “discover our evolution” (traduzione: scopri la nostra evoluzione). Uno slogan che non ha niente a che fare col cibo, ma va dritto a quello che sotto sotto è il vero obiettivo di ogni paese: “Guarda, europeo colonizzatore, vieni a scoprire cosa ti sei perso per tutti questi anni a considerarci solo come un altro paese povero del sudamerica e basta”.

Il mio collega Filippo Donati nei giorni scorsi in questo pezzo si chiedeva se abbia ancora senso un’esposizione internazionale, scagliandosi contro le emissioni di CO2 necessarie per trasportare fino a Milano cibi tipici da tutto il mondo. Io credo che nel mondo 2.0 dell’immagine serva più che mai, e che anzi sia un’occasione per i paesi che vi partecipano. La battaglia tra tipicità e globalizzazione esiste da anni, e non sarà questa Expo a peggiorare la situazione. Anzi, a dirla tutta è il festival globalizzato delle tipicità, che segue la piccola ma presente inversione di rotta che negli ultimi 10 anni problemi ambientali, l’operato di associazioni come Slow Food e gli alimenti Dop e Igp hanno risvegliato nell’opinione pubblica. Insomma, posti senza identità come il McDonalds e l’aereoporto hanno fatto capire anche ai pro globalizzazione che tutte queste particolarità locali possono essere una risorsa: una bellezza e una particolarità per il turismo. E Expo le mette in fila, dà loro modo di presentarsi al mondo, le traduce in linguaggio comune e comprensibile al turista occidentale e dà loro risalto. Lungo il decumano si snodano le storie locali in una galleria di trionfi, mentre il visitatore cerca un modo economico per vedere tutto il mondo in un giorno solo nel sapore esotico di cibi sconosciuti.
Nella mia veloce visita vorrei però soffermarmi su palazzo Italia, vero gioiello di Expo. Dovevamo fare le cose in grande in quanto paese ospitante, e l’impressione è che ci siamo riusciti. Esternamente è enorme e molto particolare, con un design accattivante che, come spiega la guida, vuole somigliare a un albero con le radici piantate nel passato e i rami che tendono al futuro. Ho trovato davvero strana la posizione in cui è collocato: non sul decumano principale ma in fondo al cardo, di fianco all’albero della vita. La fila è sempre lunga, ma entrare ne vale la pena. Il sito ufficiale di Expo descrive così quanto si trova all’interno:
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La Potenza del Saper Fare: 21 personaggi raccontano storie di professionalità applicata degli italiani, in arte e manualità, che hanno trovato soluzioni facendo impresa;
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La Potenza della Bellezza: ci sono 21 panorami e 21 capolavori architettonici che raccontano la bellezza dell’Italia;
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La Potenza del Limite: qui ci sono 21 storie di impresa agricola, agroalimentare, artigianale che racconteranno la più specifica delle grandezze italiane, la capacità di esprimere il meglio di noi nelle circostanze più proibitive, di coltivare vigneti di eccellenza su cucuzzoli aridi e non meccanizzabili, la potenza più vicina alla virtù del limite.
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L’Italia è la Potenza del Futuro e viene raccontata attraverso un Vivaio di 21 piante rappresentative delle Regioni: la Piazza del Campidoglio a Roma, dove Michelangelo creò il mosaico dell’armonia rinascimentale. Dal mosaico si leva un grande Albero, l’Albero della Vita, una struttura di acciaio e legno, alta 37 metri, con 25 metri di apertura, pensata dal designer e creativo Marco Balich e collocata al centro della Lake Arena.

Tutto palazzo Italia è una storia italiana, scritta da italiani per gli italiani. Sono 1400 metri quadrati di Italia versione Renzi: tra le pareti e i corridoi sembrano riecheggiare i discorsi sui gufi, sul paese che deve credere di più in se stesso e sul governo che risveglia la nazione. La prima stanza è “la potenza del saper fare”, dove 21 persone – una per regione – raccontano la loro storia di successo all’italiana. Si tratta di imprenditori di start-up, giovanissimi che hanno inventato app di successo, cuochi: i personaggi di successo 2.0 divisi tra globalizzazione, virtualità e tipicità in uno strano equilibrio tra modernità e tradizione. Il messaggio è di una semplicità quasi banale: “I tempi sono difficili, ma l’Italia, rappresentata da questi 21 eroi contemporanei, può farcela”.
Poi il percorso si snoda in una stanza buia in cui si sente il rumore forte di un temporale e le luci vanno a intermittenza come in mezzo ai lampi, simbolo dei tempi bui del bel paese. Si riemerge in una stanza piena di schermi che mostrano tg in cui si parla di disastri avvenuti in Italia, accanto alla scritta “Crescita senza regole”. D’altronde, dire semplicemente che l’Italia è bella non è sufficiente a raccontare una storia: bisogna cadere e poi rialzarsi per scrivere un racconto piacevole da seguire.È il principio base della semiotica di Greimas: il soggetto Italia deve rialzarsi (oggetto del desiderio) così come richiesto dai suoi stessi cittadini (destinanti o mandanti, ovvero in semiotica coloro che danno al soggetto il compito da svolgere o oggetto del desiderio). Oppositore è invece una generica sfortuna. Dal punto di vista di quelle che in semiotica si chiamano “competenze”, invece, l’Italia raccontata ad Expo può, vuole e deve rialzarsi, ma non sa di avere le capacità per farlo e quindi si rassegna alla sfortuna quando potrebbe sconfiggerla. Ad accorrere in aiuto dell’Italia come aiutante è la bellezza: seguono infatti una serie di stanze che a parer mio sono le più belle del palazzo, dove ci sono specchi sia sul soffitto che sul pavimento mentre alle pareti vengono proiettate le bellezze dell’Italia. L’effetto è disorientante e magnifico, ed è una prima acquisizione di conoscenza da parte del visitatore: con tutte queste cose favolose, chi non potrebbe rialzarsi?
La stanza che mi ha colpito di più però è quella successiva: su una passerella di legno che si snoda tra macerie di polvere e mattoni, viene mostrato il filmato del crollo degli affreschi di Cimabue nella Basilica di San Francesco ad Assisi causato dal terremoto che colpì la zona il 26 settembre del 1997. Segue poi l’immagine della stessa chiesa oggi, restaurata e bellissima, come a dire “ce l’abbiamo fatta in passato, possiamo farcela anche ora”. La scritta che accompagna questa parte del palazzo è “La potenza della bellezza: come farla rinascere”, e fa un po’ ridere pensando invece a quante cose belle e storiche stiamo lasciando cadere in nome del risparmio. La ricetta per far rinascere l’antichità purtroppo non ce l’abbiamo, e pensando a quel restauro fa sorridere che siamo dovuti andare indietro di 18 anni per trovare un bene storico che siamo riusciti a mettere a posto. Perché non scegliere, ad esempio, la chiesa di Santa Maria del Suffragio a L’Aquila? Ovviamente perché dopo 6 anni i lavori sono ancora in corso.
Per rafforzare ancora di più l’importanza dell’Italia nel mondo viene mostrata una tristissima cartina senza stivale, e poi prosegue l’esaltazione delle eccellenze nostrane: gli schermi mostrano le immagini di bambini come il futuro che già c’è, e in una stanza tanti riquadri illustrano alcune invenzioni futuristiche degli italiani a ricordarci l’ingegno di cui siamo ricchi. Insomma, un percorso di rinascita che vede ovviamente vincitore il paese Italia, che ha tutte le carte in regola per essere una potenza all’avanguardia. Si passa quindi dai disastri (provocati sempre dalle intemperie, e non direttamente del malgoverno: si parla di catastrofi naturali ma mai di disoccupazione e corruzione) alla volontà di un paese virtuoso capace di progettare cose incredibili. Il finale è quella che in semiotica si chiama sanzione, ovvero il soggetto mandante giudica l’operato del soggetto. E visto che i mandanti siamo noi, qui ai visitatori viene chiesto di firmare e condividere la “Carta di Milano”: un patto per una crescita responsabile.
Un giudizio personale? Stupendo, non perdetevelo se andate ad Expo. Ma all’uscita ricordatevi che se le cose vanno male non è solo colpa della sfiga.
Comunque se volete farvi un’idea più completa di com’è l’interno di palazzo Italia qui sotto trovate un video girato da un utente (la visita parte al minuto 3:15)
mentre cliccando qui trovate l’articolo critico nei confronti di Expo scritto da Filippo Donati qui sul Ciô